Inconsueti valori civili e manierismi rusticani di Tullio Kezich
«Fatalità» fu la parola d'ordine di giornali e Rai dopo che, alle 22.39 del 9 ottobre 1963, 260 milioni di metri cubi di roccia precipitati dal monte Toc finirono nel bacino della diga del Vajont. Ne consegui il traboccare di una doppia e gigantesca ondata che in quattro minuti cancellò Longarone e altri paesi a valle e sterminò quasi duemila persone. Ben presto però la rassegnazione di fronte alla presunta ineluttabilità di un fenomeno naturale si rivelò un semplice depistaggio relativo a una tragedia largamente annunciata. Fu istituita una commissione d'inchiesta onde accertare «le cause prossime e remote» della strane e alcuni dirigenti della Sade (Società Adriatica di Elettricità, appena confluita nell'Enel) furono rinviati a giudizio. Nel corso del lungo iter giudiziario, che si concluse all'italiana dopo quasi dieci anni con pene lievi per un paio di dirigenti, si registrò anche un suicidio.
Questa vicenda, già rievocata con stringente lucidità colloquiale da Marco Paolini nel monologo «II racconto del
Vajont» allestito in teatro da Gabriele Vacis, trova ora Ia via dello schermo per la regia di Renzo Martinelli. «Vajont» è un film che per l'ambizione e il dispiego di mezzi (fotografia eccellente di Blasco Giurato) si collega al filone catastrofico di ascendenza hollywoodiana, ma percorso da una vena accusatoria alla Francesco Rosi. Proprio come se intendesse riaprire il processo agli sciagurati responsabili. Eccoli là, in una foto di gruppo, i signori della Sade, ignari, reticenti e bugiardi, impersonati da bravissimi attori che vanno da Michel Serrault a Daniel Auteuil, da Philippe Leroy a Nicola Di Pinto e al sempre folgorante Leo Gullotta. Nello sguardo turbato di quest'ultimo, pur sorvolando sulla sua fine, si legge bene che non reggerà al rimorso.
Direi che questo aspetto del film è serio, incisivo e pressoché impeccabile. E invece sul versante delle vittime (a cominciare da Jorge Perugorria, protagonista con Anita Caprioli di una fragile storia d'amore) emergono manierismi rusticani e infiorettature superflue, per non parlare delle musiche debordanti in cori di minaccia o edificazione.
E' il tipico frangente in cui un produttore di polso (ai tempi in cui esistevano, ma qui colui che produce è il regista stesso e bisogna essere Spielberg per fare bene le due parti in commedia) avrebbe riportato il film in moviola per gli opportuni aggiustamenti. Fra i quali dovrebbe rientrare qualche ritocco al personaggio di Laura Morante, ovvero la giornalista-contro Tina Merlin (1926-1991) che seppe affrontare l'impari lotta con il potentato economico. Indotta a ripetere da una scena all'altra la stessa solfa, l'accusatrice rischia qui di apparire la monomaniaca rompiscatole che non fu affatto. Annotati i difetti del film, ne vanno comunque riconosciuti gli inconsueti valori spettacolari e civili.
Tullio Kezich