Quel pasticciaccio del ’75 adesso è commedia italiana
di Tullio Kezich
COMMEDIA «Italian Style» ibridata con il film di malavita, I soliti ignoti cucinati in salsa Un pomeriggio di un giorno da cani: questa è l'ipotesi produttiva di Spaghetti House, sceneggiatura di Age e Scarpelli, regia di Giulio Paradisi, protagonista Nino Manfredi. Dietro il film un fatto realmente accaduto: l'assalto di tre rapinatori neri, guidati dal pregiudicato nigeriano Olufemi Kayode (nome inglese: Frank Davies) al ristorante «Spaghetti House» di Knightsbridge a Londra (27 settembre ’75).
I neri hanno saputo da un barbiere, Lilio Termine, che nel locale, verso mezzanotte, si riuniscono i direttori della catena di ristoranti per mettere insieme gli incassi. Armi in pugno, chiedono i soldi all'esterrefatto Gianni Scrano (il personaggio interpretato da Nino Manfredi nel film) e ad altri 8 colleghi. Non si accorgono che il malloppo sta sul bancone, sotto il loro naso, in una borsa. Circondati dalla polizia, Davies e i suoi inventano per nobilitarsi una motivazione politica e trattengono gli italiani in ostaggio.
Giornali e TV impazziscono nel seguire ciò che può succedere, minuto per minuto, dentro lo «Spaghetti Hell Hole» (buco d'inferno). Fra assurde richieste dei sequestratori, temporeggiamenti dell'autorità e strazio delle famiglie, l'assedio dura 6 giorni. Improvvisamente, alle 3 di notte del 3 ottobre, i neri si arrendono. Fra sequestratori e sequestrati è nata una strana solidarietà, che si conferma l'estate successiva al processo. Tuttavia le pene sono durissime: 21 anni per Davies, poco meno per gli altri due. I condannati si consolano gridando slogans del Potere Nero.
L'ampio dossier dei fatti (una montagna di ritagli stampa, i filmati della TV, le registrazioni della polizia che riuscì
a introdurre un microfono nel ristorante assediato, il fitto carteggio fra Davies incarcerato e Gianni Scrano) poteva indurre a varie soluzioni di racconto. Age e Scarpelli hanno scelto quella dell'abito su misura per Manfredi, che dopo Pane e Cioccolata e Cafè Express è diventato l'eroe della commedia italo-terzomondista. Qui trova un interlocutore degno di lui nel giamaicano Rudolph Walker, che ha fatto Otello a Stratford, e i loro dialoghi in prosa e in poesia (si rimandano perfino citazioni dantesche) sono il fulcro del film, tra uno scambio di sigarette fatte con le cicche e un brindisi con sugo di pelati in scatola. Finché Manfredi, brillo per lo zucchero fermentato, si butta a riposare e vince la sua battaglia dormendo perché è proprio allora che il nero decide di arrendersi.
Spaghetti House è ben sostenuto anche dal quartetto dei caratteristi (i camerieri ognuno con una sua coloritura convenzionale ma gradevole, sono Gino Pernice, Nestor Garay, Sandro Ghiani e il sempre più promettente Leo Gullotta) e da una partecipazione intensa di Rita Tushingham nella breve parte della moglie. Però le potevano risparmiare l'orrenda scenetta familiare in cui il personaggio si presenta, e Manfredi dovrebbe fare attenzione a non esibirsi, almeno nei film, con in mano la fatidica tazzina di caffè.
Girato con agile virtuosismo nei pochi metri quadrati in cui si svolge la tragicommedia del sequestro, il film è molto meno riuscito per quel che riguarda il fuori. La folla in ansia davanti al ristorante non riesce a vivere, certi scorci di negri in attesa sono manieristici e perfino accompagnati da una specie di «spiritual». Poiché Walker viene dalle Indie orientali l'improprio riferimento musicale fa torto al gusto del maestro Gianfranco Plenizio, che invece ha manipolato in maniera delicata, fra l'ironia e la commozione, il verdiano «Va pensiero».
Ovviamente, Spaghetti House va visto come un film di lingua inglese doppiato, altrimenti è difficile rassegnarsi a sentir parlare tutti in italiano. Però il meglio dello spettacolo sta ancora in certe battute segnate dall'umorismo sociologico e dal divertimento lessicale di Age e Scarpelli. Abbiamo annotato un falso proverbio cinese: «Facile è aplile un negozio, difficile tenello apelto». Oppure l'ingenua domanda del sardo, che aspira a diventare «un cuoco profondo» ma intanto si limita a maneggiare gli schizzi di vapore bollente per risvegliare gli spaghetti surgelati: «Tutti i cuochi devono saper cucinare?». In quel momento, fra lo sbalordimento di Ghiani e la rassegnata desolazione di Manfredi, si intuisce la possibilità di una grande commedia sulla società inefficiente degli anni 80 che Age e Scarpelli dovrebbero affrettarsi ascrivere.
di Tullio Kezich