Un provinciale buffo nel girotondo di Parigi
TEATRO / Al Parioli di Roma Leo Gullotta è il protagonista di «Vaudeville» con la regia di Beppe Navello
di Maurizio Giammusso
ROMA - Smessi (finalmente!) i panni femminili che troppo spesso veste in televisione e concedendosi una vacanza dell'amato cabaret, Leo Gullotta è ora sul palcoscenico del Teatro Parioli al centro di uno spettacolo che prende il nome da un genere famoso «Vaudeville». Sappiamo che si tratta di quel tipo di commedia che ha fatto la sorridente grandezza del teatro francese della Belle Epoque: corteggiamenti goffi e adulteri a ripetizione, svenimenti propizi e improvvisi arrivi di mariti, scambi di persone e di dame, cene Chez Maxim's e serate col Can Can; ma anche precisione virtuosistica nella geometria degli intrecci, gran talento nel cogliere il dato meccanico dell'esistenza umana e di volgerlo in schietta, rapidissima comicità.
Da tutto questo il regista Beppe Navello ha tratto il suo spettacolo, tagliando e cucendo una decina di commedie diverse, che originariamente vantano i nomi dei maestri del genere, Feydeau, Courteline, Veber ed altri. Comune nei copioni scelti è il personaggio del «provinciale a Parigi», dell'ultimo arrivato nel gran luna park della seduzione e dei desideri, quello che sgrana gli occhi davanti ad ogni sorriso di donna e si imbambola ad ogni soffio di cipria.
Il tentativo del riduttore è dunque di rintracciare questo omino ingenuo assetato di novità e di pedinarlo da una commedia all'altra, fino a far diventare lo spettacolo una passeggiata attraverso un repertorio, che è come dire una passeggiata attraverso quella Parigi che non c'è più.
L'idea spiritosa in aggiunta è di realizzare figurativamente lo spettacolo come un libro che si squaderna davanti agli occhi del pubblico, un grande albo illustrato dove ogni scena è una pagina colorata, che ruota su se stessa grazie ad un semplice meccanismo di palcoscenico. Nè mancano quegli intermezzi musicali un po' romantici un po' ironici (del bravo maestro Mazzocchetti, in sala al piano), che ciascuno potrebbe aspettarsi in una situazione del genere.
Tutto perfetto, dunque? Non proprio: limite dello spettacolo è infatti che, capito il trucco dopo le prime scene, il meccanismo è un po' ripetitivo; fra un quadro e l'altro manca la sorpresa; nè c'è ovviamente il tempo di sviluppare tutti quegli incastri di personaggi e situazioni che sono la gloria del vero vaudeville.
Il meglio - e non se ne aveva dubbio - resta nell'interpretazione di Gullotta, in quel suo talento di farsi flguretta meccanica, di accendersi di stupore, di sgranare quegli occhi disegnati da un vignettista, di giocare con le giunture e con la voce insieme, di azzeccare immancabilmente i tempi di una battuta.
Dietro di lui intravediamo i fantasmi di tanti grandi: il saltello buffo di Charlot, la smorfia di Totò, il sorriso accattivante di Macario e cosi via; sembra che Gullotta li abbia assimilati geneticamente ed ora quel gene (o demone) comico gli dia la carica per agitarsi due ore e più in palcoscenico. Attorno a lui un ben assortito gruppo di professionisti, nel quale spicca soprattutto la corpulenta figura del giovane Fabio Grossi, che è un caratterista di sicuro avvenire.
Maurizio Giammusso