Teatro, i fantasmi della mente
E il laboratorio di Donato e Rosati apre nuove prospettive
di Sergio Sciacca
CATANIA - Una vera scuola di teatro deve essere anche palestra del pubblico. Dacché il «théatron» è il luogo del «vedere» occorre che chi guarda sia condotto a scorgere Quel che non è parvente, a spingere l'acume della vista oltre le immagini e i colori che gli si parano avanti, a creare, come autore oltre che come interprete, il senso degli affetti altrui. In altri termini la visione teatrale acquista concretezza non tanto sul palco della rappresentazione, quanto nella mente dell'osservatore, unica realtà completa - entelechìa avrebbe detto il Filosofo - di quella complessa trama dialogante che è la vicenda scenica.
A esporre le teorie del linguaggio e dell'esegesi sul teatro si rischierebbe di usare termini inconsueti e sospetti in una civiltà come questa nostra povera di linguaggio e pauperrima di fantasia.
Per questo Pirandello, che delle due realtà intellettuali era dovizioso, ne trasfuse il senso in icastiche rappresentazioni ruotanti attorno al concetto di persona che si fa personaggio (e viceversa) e non solo nella rapida evoluzione di una commedia, ma nella continua esperienza dell'arte. Chi era la servetta Fantasia che gli proponeva sogni e chimere come realtà palpitanti? E chi i molteplici personaggi che tanto gli somigliavano (allo stesso autore) da assumerne il profilo se non il nome? I fantasmi della sua mente sono stati etimologicamente tradotti nella fantasia dell'improvvisazione alla quale tutti hanno titolo: artisti, registi, conduttori psico-drammatici, futuri performers e frequentatori di teatri.
La rappresentazione proposta da Ezio Donato, come autore e regista e da Ottavio Rosati (sul versante psicagogico) con i giovani della scuola di arte drammatica del nostro Stabile e la poliedrica partecipazione di un Leo Gullotta splendidamente solleticato dalla intrigante situazione e stata tutto questo: il dialogo continuo tra le due parti della scena, stimolante di interpretazioni inedite, liberatorio dai rituali stantii di una consuetudine di recitazione contro cui Brecht e l'Agrigentino (per non citare che i massimi) hanno lottato. Come il teatro vitale del Medio Evo (o le corali creazioni di Tespi) è stato un rincorrersi di spunti, quali imprevisti e quali accortamente disposti dai due registi, quello della parola e quello della psiche.
Si parte ovviamente da quei «Sei personaggi» che per il loro trasalire tra reale e simbolico stracciano le metafore e si conclude con l'ultimo racconto pubblicato vivente Pirandello (il giorno prima del funesto 10 dicembre 1936) in cui la morte e la vita entrano ed escono da un quadro in un modo che non, è più la magia del ritratto di Wilde o delle macabre necrofilie df Rodenbach, ma l'estensione della vita grazie al sogno, la volontà di esistere oltre i termini consentiti dalla biologia: estremo appello del mortituro alle ragioni dell'eros? Tra questi due termini si susseguono simboli resi palpabili: l'agile fantasia, poi fattasi danza e quindi eternità di amore con Donatella Capraro, le ironiche malie di una madame Pace che gorgheggia motivi del Ventennio, spezzoni di allocuzioni mussoliniane, una voluttuosa tinozza del peccato in cui le prima castigate fanciulle si abbandonano a lascivia di
gesti; la musica simpaticamente ironica di Carlo Insolia sottolinea i momenti salienti Marta Abba, quasi tenera figlia è rievocata dalle parole di Pirandello ormai alla fine. E il pubblico ondeggia su un megaschermo che riflette immagini colte a sorpresa da una microcamera, ormai entra nel teatro non solo come corona plaudente. Si domanda, si risponde, si propone, mentre Leo Gullotta, magnificamente padrone della totalità dell'azione interpreta con commozione le parole narrate, quelle documentarie; ridiventa se stesso, ricorda la gioventù propria, dissente, si sposta da un estremo all'altro dell'Auditorium dei Benedettini che con le sue asimmetrie quasi sembra di segnato apposta per lui, scava nell'animo dei personaggi, lucidamente pugnace per le ragioni dell'Arte. Chi ha seguito un tale incontro o come spettatore o come docente o studente, non potrà mai più sedersi in una sala con l'attitudine mercantile di chi ha pagato un biglietto e aspetta il "divertimento": è pronto a gioire o riflettere secondo gli sviluppi del tema. Sul proscenio, coperta da nere gramaglie, un poco discosto dal centro, ma sempre visibile, silenziosa, ma eloquente nel suo dolente profilo, la madre dolorosa. La Parca?
Sergio Sciacca