Preti? No, Gullotta e Manfredi
L'indice
di Claudio Sorgi
Sarebbe sbagliato cercare valori religiosi espliciti nella fiction sul prete di frontiera presentato in due puntate da Canale 5 («Dio ci ha creato gratis», martedì e mercoledi, ore 21; 6 milioni 347 mila spettatori la prima puntata: share del 22,89 pc, vincitore del prime time). Sarebbe una lettura fuorviante, che inciderebbe sul giudizio complessivo. Il titolo della fiction è quello del libro dal quale è stata ricavata. Libro che, come i precedenti, organizza e adatta i temi dei bambini dell'ex maestro Marcello D’Orta, quello di «Io speriamo che me la cavo», per intenderci. D'Orta è anche autore della sceneggiatura e i bambini di Arzano sono i protagonisti del film, siano essi o no di quel paese.
Leo Gullotta non è un prete a tutto tondo. E' piuttosto un personaggio-simbolo. I componimenti dei bambini, che fanno da colonna-commento lungo molti episodi, sono una sorta di filo tematico, che serve a sottolineare una storia italiana, ambientata in un paese oppresso dalla malavita, nella quale le autorità giocano un ruolo essenziale, ma non per questo sempre adeguato. Nemmeno il Cardinale-Manfredi è credibile come Cardinale. Anch’egli è un simbolo di come potrebbe essere un buon uomo di Chiesa, coraggioso ma prudente e persino umano. Non sfugge la punta, sia pure leggera, di veleno, che però viene annullata da un antidoto potentissimo: quello della simpatia.
Questo Cardinale strano, un pò buffo, assolutamente improbabile, burbero e umorista, ha però dei sentimenti, tanta saggezza e, sembrerà impossibile, ha anche doti di governo.
Dicevo della funzione tematica dei temi dei ragazzini; funzione che, raggiunge forse il suo apice quando il parroco-Gullotta pronuncia la sua prima omelia e, dopo avere letto un tema incompiuto come tutti gli altri del ragazzino scrittore, lo completa lui con l'indignazione e con la rivolta civile in nome del Vangelo. E' la svolta. E' una sorta di conversione del prete ex poliziotto che non aveva coraggio e non se lo sapeva dare, secondo la citazione del Cardinale Manfredi e che Io trova chissà dove per diventare un capo morale e civile, ma non religioso come toccherebbe fare a un parroco.
Ecco, questo forse è un punto debole della fiction. Sembra che sia impossibile essere totalmente preti e insieme partecipi delle lotte civili per la giustizia e per la difesa dei deboli. Ma del resto la chiave torna ad essere - come è nello spirito delle imprese di D'Orta, compreso l'ultimo libro, «Romeo e Giulietta si fidanzarono dal basso» - mani dei bambini.
Diretti splendidamente la regia è di Angelo Antonucci, ma non manca la mano di D'Orta sono proprio loro ad educare don Michele. Gli insegnano Il coraggio, la fiducia in Dio, lo spingono a fare le scelte
giuste e gli dicono persino quando deve dire Messa.
E' vero: non c'è un segno di Croce, non una preghiera, oppure ci sono segni che sanno di posticcio, ma poi il finale è tutt'altro che agnostico. E' insomma un caso strano: una storia che ha Dio nel titolo un titolo significativo teologicamente perfetto ma non ce l'ha nel segni espliciti del racconto, eppure lo fa sentire come un'esigenza, come una necessità. In un certo senso, lo trascura per quasi tutta la strada, perciò sarebbe sbagliato arrampicarsi sui vetri alla ricerca di valori religiosi espliciti. Eppure Il senso è proprio quello.
Forse è qualcosa che assomiglia all'agnosticismo dichiarato di Gullotta e all'ateismo professato da Manfredi. L'uno e l'altro sono un segno forte della nostalgia di Dio. Forse un prete e un cardinale non sono proprio così. Ma sarebbe bello che l'uomo che è in loro fosse anche così.
Claudio Sorgi